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La decadenza dei romani Sallustio

 La decadenza dei Romani (De Cat. con. 10-11) Nell’opera di Sallustio, l’archeologia occupa otto capitoli (dal 6 al 13) ed è divisa in due parti: una positiva (capitoli 6-9), che racconta i buoni costumi e la crescita della Roma antica, e una negativa (capitoli 10-13), che descrive le cause della sua decadenza. Nel capitolo 10, Sallustio individua l’inizio della rovina di Roma nella distruzione di Cartagine (146 a.C.). Dopo aver sconfitto tutti i nemici e conquistato il Mediterraneo, Roma non ha più avversari esterni da temere. Questo porta a un progressivo decadimento morale: l’ambizione prende il posto della concordia, l’avidità sostituisce la sobrietà, la falsità rimpiazza la lealtà. Lo Stato entra così in una fase di degrado inevitabile. Sallustio, seguendo una visione moralistica tipica della storiografia antica, non attribuisce il cambiamento a cause politiche o sociali (come l’incapacità della Repubblica di gestire un impero vasto e complesso), ma lo spiega come una consegue...
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Usanze degli antichi Romani

 Versione in Latino  Traditum est nullum repudium inter uxorem et virum a condita urbe usque ad centesimum et quinquagesimum annum intercessissel Primus autem Spurius Carvilius uxorem sterilitatis causa dimisit. Qui, quamquam tolerabili ratione motus esse videbatur, reprehensione tamen non caruit, quia maiores nostri ne supiditatem quidem Überorum coniugali fidei praeponi debuisse arbitrabantur. Vini usus olim Romanis feminis ignotus fuit, ng scilicet in aliquod dedecus prola-berentur. Ceterum ut non tristis et horrida pudicitia feminarum esset, sed venusta, indulgenti bus maritis mulheres auro abundanti et multa purpura usae sunt et, quo formam suam concin-niorem efficerent, summa cum diligentia capillos cinere rutilaverunt. Quotiens vero inter virum et uxorem aliquid iurgi intercesserat, in sacellum deae Viriplacae, quod est in Palatio, veniebant Vet ibi, invicem locuti quae voluerant, contentione animorum deposita, concordes revertebantur. Dea nomen hoc a placandis viris fe...

Il discorso di Critognato

Brano De Bello Gallico : Il discorso di Critognato Cesare, nella sua campagna contro i Galli, mise in atto un abile e complesso assedio contro la città di Alesia . La città era situata in una posizione strategica, sulla sommità di un colle circondato da due fiumi e da altri tre colli, e i Galli credevano che questa posizione fosse sufficiente a garantirne la sicurezza. Cesare, però, dimostrò la sua abilità tattica costruendo una doppia linea di fortificazioni : Una fortificazione interna, progettata per attaccare la città; Una fortificazione esterna, destinata a respingere eventuali rinforzi che gli alleati di Vercingetorige avrebbero potuto inviare. I Galli avevano provviste sufficienti solo per 30 giorni , e alla fine del trentesimo giorno il frumento era terminato. Di fronte a questa emergenza, i capi della città si riunirono in assemblea per decidere il da farsi. In questo contesto, prese la parola Critognato , membro di una famiglia nobile dell'Alv...

Il verbo Mello in greco antico

 In greco antico esiste un verbo che racchiude il senso dell’attesa. Non descrive il futuro: lo anticipa, lo prepara. Quel verbo è μέλλω (méllō). Tra le forme verbali più suggestive della lingua greca, μέλλω significa “essere sul punto di”, “avere in animo di”, “stare per fare qualcosa”. Pur essendo morfologicamente un presente, il suo significato è proiettato in avanti: esprime un’azione imminente, sospesa tra l’intenzione e la realizzazione. Le grammatiche (Smyth §1864, Goodwin §1425) lo definiscono come il verbo dell’attesa, spesso riferito a un futuro prossimo. Il greco conosce anche un futuro semplice, μελλήσω (mellḗsō), ma è raro e tardo: la lingua classica non ne sentiva la necessità, perché μέλλω già contiene in sé l’idea di ciò che sta per accadere. Questo verbo introduce l’infinito, che ne completa il significato: μέλλω ζῆν — “sto per vivere” μέλλω θαρρεῖν — “sto per trovare coraggio” μέλλω ἀποθανεῖν — “sto per morire” Platone, nel Timeo (28a), scrive: «Πᾶν ὃ μέλλει γενήσ...

Nemesi

   Nemesi, nella mitologia greca, era la dea che si occupava di distribuire la giustizia. Il suo nome deriva dal verbo greco "nemo", che significa “dividere”, “assegnare” o “punire”. Il suo compito era mantenere l’equilibrio nel mondo. Se qualcuno agiva con arroganza o rompeva l’ordine naturale delle cose, Nemesi interveniva per punirlo e ristabilire l’armonia. Oggi, al posto di “nemesi”, si usa spesso la parola “karma”, che viene dalla filosofia indiana. Il karma è una legge che dice che ogni azione ha una conseguenza: se fai del bene, ricevi del bene; se fai del male, ne subisci gli effetti. Nemesi e karma sembrano simili, ma c’è una differenza importante: - Il karma premia e punisce in base alle azioni. - Nemesi, invece, è più severa: punisce chi si comporta male, soprattutto chi è arrogante o si crede superiore. Infine, mentre Nemesi è una dea, quindi una figura personale, il karma è un principio impersonale che vale per tutti gli esseri viventi.

I calchi di Pompei

 Pompei, Anno 79 d.C.  Il cielo sopra Pompei si oscura, il Vesuvio esplode con furia primordiale. In poche ore, la città viene inghiottita da una pioggia rovente di cenere e lapilli. Le strade si svuotano, le case crollano, l’aria diventa veleno. Più di duemila vite si spengono in quel giorno tragico. Alcuni vengono travolti dalle macerie, altri soccombono ai gas letali. Ma proprio quella cenere, che uccide, finisce per conservare. Solidificandosi, crea impronte nel vuoto: sagome lasciate dai corpi in decomposizione, come stampi del dolore. Secoli dopo, nel XIX secolo, un uomo cambia la storia dell’archeologia. Giuseppe Fiorelli, mente brillante e visionaria, comprende il potenziale di quelle cavità. Vi versa gesso liquido, e ciò che riemerge è sconvolgente: figure umane, congelate nell’ultimo gesto, nell’ultimo pensiero. Nascono così i celebri calchi di Pompei: sculture involontarie che raccontano la fine, ma anche la vita. Oggi ne conosciamo oltre cento, ciascuno con la sua ...

Francesco Petrarca - Solo et pensoso i più deserti campi

 Solo et pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi et lenti, et gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigio human l’arena stampi. Altro schermo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti, perché negli atti d’alegrezza spenti di fuor si legge com’io dentro avampi: sì ch’io mi credo omai che monti et piagge et fiumi et selve sappian di che tempre sia la mia vita, ch’è celata altrui. Ma pur sí aspre vie né sí selvagge cercar non so ch’Amor non venga sempre ragionando con meco, et io co’llui.