Cicerone
Tusculanae disputationes, liber Tertius – 1
Quidnam esse, Brute, causae putem, cur, cum constemus ex animo et corpore, corporis curandi tuendique causa quaesita sit ars atque eius utilitas deorum inmortalium inventioni consecrata, animi autem medicina nec tam desiderata sit, ante quam inventa, nec tam culta, posteaquam cognita est, nec tam multis grata et probata, pluribus etiam suspecta et invisa? An quod corporis gravitatem et dolorem animo iudicamus, animo morbum corpore non sentimus? Ita fit ut animus de se ipse tum iudicet, cum id ipsum, quo iudicatur, aegrotet.
Qual mai causa dovrei pensare che esiste, o Bruto, perché, risultando di anima e di corpo, si sia cercata un'arte per curare e proteggere il corpo e la sua utilità (sia stata) consacrata all'invenzione degli dei immortali, la medicina dell'anima al contrario non ugualmente è stata desiderata, prima di essere scoperta, nè tanto coltivata, dopo che fu conosciuta, nè ugualmente gradita e approvata da molti, ai più anzi in sospetto e in odio? forse perché giudichiamo con l'anima la grave condizione e il dolore del corpo, non sentiamo con il corpo la malattia dell'anima? Perciò avviene che l'animo giudichi (bene) di sè (solo) allora, quando è malato quello stesso (= il corpo) per mezzo del quale si fa il giudizio.
Mi chiedo, o Bruto, quale sia mai la ragione per cui, pur essendo noi costituiti di anima e corpo, per curare e conservare il corpo è stata trovata un'arte e la sua utilità è stata collegata alla scoperta degli dèi immortali, mentre la cura dell'anima né è stata tanto desiderata prima di essere scoperta, né è stata tanto praticata una volta conosciuta, né è stata gradita ed approvata da molti, anzi è sospetta ed odiata dalla maggior parte delle persone? Forse perché giudichiamo il malessere e il dolore del corpo con l'anima, non sentiamo la malattia dell'anima attraverso il corpo? Così avviene, che l'anima stessa allora dia un giudizio su di sé, quando è inferma la facoltà di giudicare riguardo a ciò.
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