Pompei, Anno 79 d.C. Il cielo sopra Pompei si oscura, il Vesuvio esplode con furia primordiale. In poche ore, la città viene inghiottita da una pioggia rovente di cenere e lapilli. Le strade si svuotano, le case crollano, l’aria diventa veleno. Più di duemila vite si spengono in quel giorno tragico. Alcuni vengono travolti dalle macerie, altri soccombono ai gas letali. Ma proprio quella cenere, che uccide, finisce per conservare. Solidificandosi, crea impronte nel vuoto: sagome lasciate dai corpi in decomposizione, come stampi del dolore. Secoli dopo, nel XIX secolo, un uomo cambia la storia dell’archeologia. Giuseppe Fiorelli, mente brillante e visionaria, comprende il potenziale di quelle cavità. Vi versa gesso liquido, e ciò che riemerge è sconvolgente: figure umane, congelate nell’ultimo gesto, nell’ultimo pensiero. Nascono così i celebri calchi di Pompei: sculture involontarie che raccontano la fine, ma anche la vita. Oggi ne conosciamo oltre cento, ciascuno con la sua ...
Solo et pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi et lenti, et gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigio human l’arena stampi. Altro schermo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti, perché negli atti d’alegrezza spenti di fuor si legge com’io dentro avampi: sì ch’io mi credo omai che monti et piagge et fiumi et selve sappian di che tempre sia la mia vita, ch’è celata altrui. Ma pur sí aspre vie né sí selvagge cercar non so ch’Amor non venga sempre ragionando con meco, et io co’llui.