Carme 85 - Vita di Catullo e Amore per Lesbia
Vita di Catullo
Catullo nacque a Verona nell'84 a.C. circa ed ebbe una vita breve, ma molto intensa. Era di famiglia aristocratica. Grazie alla ricchezza della sua famiglia, ebbe una buona educazione letteraria. A circa 20 anni, si trasferì a Roma, dove frequentò gli ambienti raffinati e decadenti dell'alta società romana. Strinse amicizia con Quinto Lutazio Catulo e coi poetae novi[1] Elvio Cinna e Licinio Calvo, condividendo con loro una vita d'amore e spensieratezza. Catullo ebbe una relazione altalenante con una donna, più grande di lui di circa 10 anni, che nelle sue poesie chiamava Lesbia[2], ma il cui vero nome era Clodia, moglie di Q. Cecilio Metello e sorella del tribuno della plebe P. Clodio, una dama ricca, intelligente, affascinante, elegante e coltissima, amante della bella vita e spregiudicata, che passava da un amante all’altro. Innamorato perdutamente di lei, il giovane Catullo bruciò la sua breve esistenza nel rincorrere questo amore tormentato e divenne il primo poeta d'amore della letteratura latina e forse anche il primo poeta romantico. Un amore sensuale che passava da momenti di felicità sublime a momenti di cupa infelicità, da gioie intensissime e acuta sofferenza, che Catullo trasformò in 25 brucianti poesie, in cui elogiava e disprezzava la donna amata, ma infedele.
Fece un viaggio in Bitinia
per recarsi sulla tomba di suo fratello[3] e per tentare di cancellare
dal suo cuore la donna che lo aveva tradito. Tornò poi a Sirmione, in cerca di
pace e riposo sul lago di Garda, dove morì a soli 30 anni, nel 54 a.C. circa.
Di Catullo ci sono pervenuti
116 carmi (poesie, da carmen, carminis) raccolti nel Liber
o Libellus (libro o libricino) catulliano, suddivisi per il tipo di metrica:
1-60 scritti in endecasillabi, trimetri giambici,
ipponattei, asclepiadi, e conosciuti col nome di nugae → piccole poesie in cui parla del
suo amore per Lesbia, dell'amore per il bel giovine Giovenzio e varie dediche
ai suoi amici e odio contro i nemici;
61 - 68 scritti in pentametri, esametri o distici elegiaci, detti Carmina
Docta → trattano di amore e mito e presentano un elevato
livello stilistico;
69 – 116 sono scritti in distici elegiaci, e vengono detti epigrammi →brevi poesie di argomento
erotico.
Il poeta nelle sue poesie fa una netta distinzione
tra amore passionale e voler bene (bene
velle) e crede nell’importanza della fides
sia in amore che in amicizia.
Per i suoi componimenti si
ispira a Callimaco (Chioma di Berenice), Saffo e
Archiloco, ma tutte le sue poesie sono originali perché sono frutto dei suoi
sentimenti, delle situazioni e delle circostanze che ha vissuto in prima
persona!
Uno dei
carmi più celebri di Catullo è il carme 85: Odi et amo.
TESTO LATINO TRADUZIONE
TESTO LATINO TRADUZIONE
Odi et amo. Quare id faciam,
fortasse requiris.
Odio e amo. Forse mi chiedi perché io lo faccia.
Nescio,
sed fieri sentio et excrucior. Non
lo so, ma sento che accade, e mi struggo.
In
questa poesia l’ossimoro catulliano “odi et amo” racchiude tutti i sentimenti
contrastanti, di cui il poeta non si capacita. Si chiede, infatti, perché possa
succedere di amare e odiare nello stesso tempo la sua donna, ma non sa darsi
una risposta e, disperato, risponde che è così e basta.
Il fidanzamento e il matrimonio
nell’antica Roma
Nell’antichità
spesso gli sposi,
prima delle nozze, o non si conoscevano si erano a malapena intravisti e, pertanto, i
matrimoni erano unioni infelici, soprattutto per le donne, mentre gli uomini,
invece, si concedevano molte libertà. Il matrimonio, infatti, era nella maggior parte dei casi
solo un affare e la donna era usata come strumento per fare accordi e
alleanze tra uomini e famiglie, mentre la donna
passava da un padrone all’altro: dalla tutela del padre a quella
dello sposo.
IL FIDANZAMENTO
Prima del
matrimonio era necessario un periodo di fidanzamento della durata di circa un
anno, sponsalia, che
iniziava quando i due padri decidevano di sposare i figli e celebravano lo sponsio[4],
in presenza degli aruspici[5] e degli amici
delle due famiglie, che facevano da testimoni.
Il futuro sposo donava:
-
alla fanciulla l’anello nuziale (anulus pronubus), simbolo di fedeltà, che lei metteva
all'anulare[6]
della mano sinistra
-
al futuro suocero una somma di denaro (arrha).
La puella aveva in genere 12-13 anni
e il padre decideva a chi darla in moglie anche contro la sua volontà.
Seguiva,
quindi, un banchetto al quale partecipavano tutti i presenti e lo scambio dei
doni, solitamente arredi ed abbigliamento.Allora, quella che era stata
promessa si chiamava sponsa e colui che aveva promesso di
sposarla sponsus. Ma se dopo questo accordi la donna non veniva più
data o presa in moglie, lo stipulatore del contratto intentava una causa. Il
giudice ricercava per quale motivo la futura sposa non fosse stata data o
accolta in matrimonio. Se non risultava una causa legittima, valutava in denaro
il caso in contestazione e condannava al pagamento della somma colui che aveva
promesso solennemente in favore di colui che aveva richiesto l’impegno. (Aulio Gellio)
IL MATRIMONIO
I Romani preferivano
sposarsi nella seconda metà di giugno. Il matrimonio era regolato da molte
leggi. Lo ius connubi, la capacità di
contrarre matrimonio, poteva inizialmente aversi solo tra individui appartenenti
alla stessa classe sociale, ma la Lex Canuleia, nel
445 a.C., permise il matrimonio fra patrizi e plebei e, sotto Caracalla, tale
diritto fu esteso a tutto l’Impero.
Esistevano
quattro tipi di matrimonio:
-
Confarreatio, un rito religioso che avveniva in presenza del
pontefice massimo (Pontifex Maximus) e del
sacerdote di Giove (Flamen Dialis), e di 10
testimoni, e con l’offerta del panis
farreus, una focaccia a base di
farro, che veniva mangiata dagli sposi, appena entrati nella nuova casa;
-
Coemptio, un rito
civile in cui la moglie veniva “acquistata” dal marito in presenza di 5
testimoni e del libripens, che reggeva la bilancia (stadera) su cui lo sposo-compratore gettava
il denaro (nummus);
-
Usus, secondo il
quale diventava moglie la donna che aveva abitato con un uomo per un anno
intero;
-
Sine
manu, fondato sul maritalis affectio, in cui la donna rimaneva sotto
la potestà paterna, anche dopo aver contratto matrimonio, per poter ereditare i
beni del padre.
L’abito da sposa
Le Nozze
Le
nozze si svolgevano in casa della sposa, addobbata a festa con fiori e piante,
tappeti e fasce colorate. Si cominciava con il sacrificare a Giove o a Giunone
una pecora, un bue o un maiale, alla presenza di testimoni, amici e parenti.
Durante la cerimonia, il flammeum veniva
sollevato e posto anche sul capo dello sposo. Gli sposi, dopo aver pronunciato
la formula rituale, firmavano il contratto nuziale (detto tabulae nuptiales) e il matrimonio diveniva
ufficialmente valido. I due giovani potevano quindi mostrarsi a volto
scoperto come marito e moglie, e la madrina, detta pronuba, univa
le loro mani (dextrarum iunctio), in segno
di reciproca fedeltà.
Seguiva
un ricco banchetto, la coena nuptialis, e infine
il corteo nuziale tra canti, musica e fiaccole accese accompagnava lo sposo che,
fingendo di rapire la sposa (in ricordo del ratto delle Sabine[7]), prelevava
la sposa dalla casa paterna e la portava nella propria casa (deductio).
Qui, lo sposo prendeva in braccio la moglie e la conduceva
all’interno, passando sopra una pecora distesa sul pavimento dell’atrio. Intanto, i
presenti intonavano canti al dio Talassio, protettore dei matrimoni. Dentro
casa, lo sposo chiedeva alla sposa quale fosse il suo nome ed ella
rispondeva “ubi tu Caius, ego Caia” ,
poiché con il matrimonio la sposa assumeva il cognome del marito e gli portava in
dono una dote.
Il giorno
dopo la sposa faceva sacrifici ai Lari ed ai Penati[8] e riceveva
doni dal marito. Seguiva, quindi, un banchetto (repotia)
riservato ai parenti degli sposi.
I
diritti e i doveri della Sposa
Secondo
il volere degli antichi Romani (Mos maiorum),
la mater familias ideale doveva essere
fedele e rispettosa del motto: Casta fuit, domum servavit,
lanam fecit (Fu casta, custodì la casa, filò la lana).
Le iustae nuptiae davano
al marito il diritto di protezione e di tutela e di padronanza assoluta (manus) sulla moglie e, per una legge dei
tempi di Romolo, egli poteva anche condannarla a morte in due casi:
-
In caso venisse sorpresa a
bere vino: la donna veniva
condannata a morte, perché i Romani credevano che, bevendo vino, le donne abortissero.
[1]
o neóteroi, così chiamati
da Cicerone che coniò questa espressione in tono ironico e dispregiativo, per
designare questo gruppo di poeti, poiché disapprovava il loro modo di
vivere lontano dalla politica e dagli
affari dello stato
[2]
pseudonimo riferito all’isola di Lesbo, in cui viveva Saffo, la poetessa greca dell’amore
[3]
in onore del quale scrisse il Carme
101, ripreso poi da Foscolo per comporre In morte del fratello
Giovanni
[4]
Il nome deriva dal verbo spondēre. Durante
la cerimonia di fidanzamento, il fidanzato chiedeva al padre della sposa "Spondesne"?
"Prometti?" E questi rispondeva "Spondeo” "Lo
prometto".
[5]
sacerdote etrusco e romano
dedito alla divinazione, che anticipava il futuro con l'analisi delle viscere
degli animali
[6]
detto appunto anularius, perché si credeva partisse una vena o un
nervo che giungeva dritto al cuore.
[7]
Dopo la fondazione di Roma, Romolo si
pose il problema di come popolarla. Egli infatti aveva portato con sé i pastori
ma nessuna donna. Egli organizzò una grande festa alla quale invitò i Sabini con
le rispettive mogli e figlie. Durante la festa, i Romani rapirono le donne
sabine e con le armi scacciarono gli uomini.
[9]
un locale sotterraneo della casa
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