Godi, fanciullo mio...

"Godi, fanciullo mio..." è una espressione tratta da uno dei più celebri componimenti di Leopardi:


Il sabato del villaggio

La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell’erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch’ebbe compagni dell’età più bella.
Già tutta l’aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
Giù da’ colli e da’ tetti,
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dì del suo riposo.

 

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l’altro tace,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s’affretta, e s’adopra
Di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.

 

Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.

 

Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
E’ come un giorno d’allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.


"Il sabato del villaggio" è una delle poesie più celebri di Giacomo Leopardi, scritta nel 1829 e pubblicata nella raccolta "Canti". In questa poesia, Leopardi descrive l'atmosfera serena e piena di aspettative che precede il giorno di festa, il sabato, in un piccolo villaggio. Attraverso le immagini di vita quotidiana, il poeta riflette sul tema dell'attesa e sulla contrapposizione tra la speranza e l'illusione.

La poesia si apre con l'immagine di una giovane contadina (la donzelletta) che torna dalla campagna al tramonto, portando con sé un fascio d'erba e un mazzolino di fiori, che userà per ornarsi in vista della festa del giorno successivo. Questa scena di vita semplice e rurale è accompagnata da altre immagini che descrivono gli abitanti del villaggio: la vecchierella che filando ricorda i tempi passati, i bambini che giocano festosamente sulla piazza, e il contadino che torna a casa pensando al suo giorno di riposo.

Leopardi, però, non si limita a descrivere la gioia e la spensieratezza del sabato. Nella seconda parte della poesia, riflette sulla tristezza e la noia che seguiranno il giorno di festa, quando le persone torneranno alle loro occupazioni quotidiane. Questo contrasto tra l'attesa felice e la delusione del giorno dopo è centrale nella visione pessimistica di Leopardi.

Nell'ultima strofa, il poeta si rivolge a un giovane (garzoncello scherzoso), invitandolo a godere della sua giovinezza, paragonandola all'attesa del sabato, un periodo di speranza e serenità che precede le difficoltà e le delusioni della vita adulta.

"Il sabato del villaggio" è un capolavoro che cattura l'essenza del pensiero leopardiano: l'idea che la felicità risieda più nell'attesa di qualcosa di bello che nella sua realizzazione, e che la vita stessa sia una continua alternanza tra speranza e delusione.


Volendo fare dei collegamenti fra la frase "Godi, fanciullo mio..." di Leopardi e il mondo greco-latino, potremmo rifarci ad altre illustri affermazioni. 


Cominciamo con:

Μὴ ὡς μύρια μέλλων ἔτη ζῆν. τὸ χρεὼν ἐπήρτηται· ἕως ζῇς, ἕως ἔξεστιν, ἀγαθὸς γενοῦ (IV,17)

Le cui possibili traduzioni sono:

"Non comportarti come se dovessi vivere diecimila anni. Il fato è appeso sopra di te; finché vivi, finché è possibile, sii buono."

“Non vivere come se tu avessi ancora diecimila anni da vivere. Il fato incombe su di te. Finché vivi, finché ti è possibile, diventa buono.”

Non comportarti come se dovessi vivere diecimila anni. Sulla tua testa pende il fato: finché vivi, finché puoi farlo, vivi onestamente.

Do not act as if you were going to live ten thousand years. Death hangs over you. While you live, while it is in your power, be good.      - Marcus AureliusMeditations, Book IV.17

Il passo in greco appena riportato è tratto dalle "Meditazioni" o "A se stesso" di Marco Aurelio (IV, 17), un'opera filosofica in cui l'imperatore-filosofo riflette sulla brevità della vita e sull'importanza di vivere in modo virtuoso e consapevole. Questa citazione in particolare richiama la filosofia stoica, seguita da Marco Aurelio, e soprattutto l'idea che la morte è sempre vicina e che, proprio per questo, dovremmo vivere ogni giorno con integrità e saggezza.

Potremmo anche ricordare le parole di una delle più famose commedie di Terenzio, l'Andria:

"Tristis interim, nonnunquam conlacrumabat". Terenzio

Nel frattempo diventava triste, ogni tanto scoppiava a piangere... da Andria - "La ragazza di Andro" (Terenzio).


Potremmo anche paragonare il fato alla metafora della “Spada di Damocle”, rappresentazione di un pericolo incombente, giunta fino a noi attraverso le parole di Cicerone. 

«Per quanto, anche il tiranno Dionisio fece vedere da sé, una volta, quanto si considerava felice. Conversava con uno di quelli che gli erano sempre intorno, Damocle; e questi stava facendo tutto un discorso sulle sue ricchezze, sulla sua potenza, sul prestigio del regime, sull’abbondanza di tutto, sullo splendore della reggia, per concludere a un certo punto che lui, Dionisio, era l’uomo più felice che fosse mai esistito. “Allora, Damocle”, gli propose lui, “dal momento che questa vita ti piace tanto, perché non la gusti un po’ di persona, per provare la mia felicità?” Damocle rispose che era proprio quello che desiderava; e allora il tiranno ordinò che lo si facesse sdraiare su un letto d’oro ricoperto di un bellissimo tappeto con tutti splendidi ricami, e fece mettere in bella mostra su parecchi tavolini vasi d’oro e d’argento. Poi fece disporre intorno alla mensa schiavi scelti e bellissimi, che dovevano servire con cura impeccabile, pronti al cenno di Damocle. C’erano profumi, ghirlande di fiori, aromi che bruciavano, e le mense erano cariche di cibi raffinati. Damocle si sentiva un uomo felice: quando, in mezzo a tutto questo splendore, Dionisio fece sospendere in soffitto una spada scintillante, proprio sopra la testa di quell’uomo felice; e la spada era attaccata a un crine di cavallo. Ecco che non badava più, Damocle, alla bellezza dei servitori e al pregio artistico dell’argento: le mani non toccavano più la tavola, le ghirlande gli cadevano da sole giù dal capo: alla fine supplicò il tiranno di lasciarlo andar via, perché non voleva più saperne, di quella felicità. È chiaro quello che voleva far capire Dionisio: non ci può essere felicità, se si è sempre costretti ad avere paura. Quanto a lui, non aveva più neanche la possibilità di tornare alla giustizia, e di ridare ai suoi concittadini la loro libertà e i loro diritti, perché già nell’età sconsiderata della prima giovinezza s’era messo talmente sulla cattiva strada e ne aveva fatte tante, che oramai, se incominciava a dar retta alla ragione, non poteva più salvarsi.»

Marco Tullio Cicerone, Tusculanae Disputationes (5, 61-62).

L'espressione "sulla tua testa pende una spada di Damocle" è un'aggiunta interpretativa che evoca la famosa storia della spada di Damocle, simbolo dell'incombenza costante del pericolo o della morte, che sottolinea ulteriormente l'urgenza di vivere con virtù e consapevolezza. Questa aggiunta arricchisce il messaggio morale della frase, enfatizzando l'incertezza della vita e la necessità di vivere rettamente.



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