Il fidanzamento e il matrimonio nell’antica Roma
Nell’antichità
spesso gli sposi, prima delle nozze, non
si conoscevano nemmeno o si erano a malapena
intravisti in qualche occasione e, pertanto, i matrimoni finivano per essere delle unioni infelici, soprattutto per le
donne (che col matrimonio passavano solo da un padrone all’altro: dal padre al marito), mentre gli uomini si concedevano molte libertà (uscivano, bevevano e si divertivano con gli amici e le prostitute).
Il matrimonio, in molti casi,
era solo un affare e la donna veniva
usata come strumento per fare accordi e alleanze tra uomini e famiglie.
IL FIDANZAMENTO
Prima del
matrimonio era necessario un periodo di fidanzamento della durata di circa un
anno, detto sponsalia, che
iniziava quando i due padri decidevano di sposare i figli e celebravano lo sponsio[1],
in presenza degli aruspici[2] e degli amici
delle due famiglie, che facevano da testimoni.
Il futuro sposo donava:
- - alla fanciulla l’anello nuziale (anulus pronubus),
simbolo di fedeltà, che lei metteva all'anulare[3] della mano sinistra
- - al futuro suocero una somma di denaro (arrha).
La puella aveva in genere
12-13 anni al momento dello sponsio, e il padre decideva a chi darla in
moglie anche contro la sua volontà. Al rito seguiva un banchetto al quale partecipavano tutti i presenti e lo scambio dei
doni, solitamente arredi ed abbigliamento. Allora, quella che era stata
promessa si chiamava sponsa e colui che aveva promesso di
sposarla sponsus. Ma se dopo questo accordi la donna non veniva più
data o presa in moglie, lo stipulatore del contratto intentava una causa. Il
giudice ricercava per quale motivo la futura sposa non fosse stata data o
accolta in matrimonio. Se non risultava una causa legittima, valutava in denaro
il caso in contestazione e condannava al pagamento della somma colui che aveva
promesso solennemente in favore di colui che aveva richiesto l’impegno. (Aulio Gellio)
IL MATRIMONIO
I Romani sceglievano come periodo per sposarsi la seconda metà di giugno. Il matrimonio era regolato da molte
leggi. Lo ius connubi, la capacità di
contrarre matrimonio, poteva inizialmente aversi solo tra individui appartenenti
alla stessa classe sociale, ma la Lex Canuleia, nel
445 a.C., permise il matrimonio fra patrizi e plebei e, sotto Caracalla, tale
diritto fu esteso a tutto l’Impero.
Occorre distiungere tra quattro tipi di matrimonio:
- - il vero e proprio matrimonio, quello che seguiva allo sponsio, veniva detto Confarreatio, e consisteva in un rito religioso che avveniva in presenza del
pontefice massimo (Pontifex Maximus) e del
sacerdote di Giove (Flamen Dialis), e di 10
testimoni, ed era contraddistinto dall’offerta del panis
farreus, una focaccia a base di
farro, che veniva mangiata dagli sposi, appena entrati nella nuova casa;
- - Coemptio, un rito
civile in cui la moglie veniva “acquistata” dal marito in presenza di 5
testimoni e del libripens, che reggeva la bilancia (stadera) su cui lo sposo-compratore gettava
il denaro (nummus);
- - Usus, secondo il
quale diventava moglie la donna che aveva abitato con un uomo per un anno
intero;
- - Sine
manu, fondato sul maritalis affectio, in cui la donna rimaneva sotto
la potestà paterna, anche dopo aver contratto matrimonio, per poter ereditare i
beni del padre.
L’abito da
sposa
La sposa, il giorno delle nozze, offriva in dono la toga praetexta (la toga orlata di color porpora che
indossava abitualmente) alla dea protettrice delle giovani spose, Fortuna virginalis,
e indossava una tunica bianca (tunica recta o regilla),
lunga fino ai piedi e stretta in vita da una cintura di lana (cingulum herculeum), legata con
un nodo (nodus herculeus) che
solo il marito poteva sciogliere la prima notte di nozze. Al collo
portava una collana di metallo. Sopra
la tunica la sposa portava una sopravveste (palla) di color
giallo zafferano e ai piedi aveva sandali dello stesso colore (lutei socci). I capelli venivano divisi
in sei trecce da uno spillone a forma di lancia (hasta caelibaris per allontanare la sfortuna), e raccolti da
una reticella rossa. Il velo della sposa era detto flammeum
ed era di color rosso o arancione o giallo, e nascondeva la parte alta del viso. Il termine nozze deriva dal nubere che, oltre a significare “contrarre matrimonio”,
significa “celare, nascondere”. Sul velo
veniva indossata una coroncina di fiori (maggiorana e verbena nell’età di
Augusto, mirto e fiori d’arancio nell’età imperiale).
[5] Dei protettori della casa e della famiglia
[6] un locale sotterraneo della casa
Le Nozze
Le
nozze si svolgevano in casa della sposa, addobbata a festa con fiori e piante,
tappeti e fasce colorate. Si cominciava con il sacrificare a Giove o a Giunone
una pecora, un bue o un maiale, alla presenza di testimoni, amici e parenti.
Durante la cerimonia, il flammeum veniva
sollevato e posto anche sul capo dello sposo. Gli sposi, dopo aver pronunciato
la formula rituale, firmavano il contratto nuziale (detto tabulae nuptiales)
e il matrimonio diveniva ufficialmente valido. I due giovani potevano quindi mostrarsi
a volto scoperto come marito e moglie, e la madrina, detta pronuba, univa
le loro mani (dextrarum iunctio), in segno
di reciproca fedeltà.
Seguiva
un ricco banchetto, la coena nuptialis, e infine
il corteo nuziale tra canti, musica e fiaccole accese accompagnava lo sposo che,
fingendo di rapire la sposa (in ricordo del ratto delle Sabine[4]), prelevava
la sposa dalla casa paterna e la portava nella propria casa (deductio).
Qui, lo sposo prendeva in braccio la moglie e la conduceva
all’interno, passando sopra una pecora distesa sul pavimento dell’atrio. Intanto, i
presenti intonavano canti al dio Talassio, protettore dei matrimoni. Dentro
casa, lo sposo chiedeva alla sposa quale fosse il suo nome ed ella
rispondeva “ubi tu Caius, ego Caia” ,
poiché con il matrimonio la sposa assumeva il cognome del marito e gli portava in
dono una dote.
Il giorno
dopo la sposa faceva sacrifici ai Lari ed ai Penati[5] e riceveva
doni dal marito. Seguiva, quindi, un banchetto (repotia)
riservato ai parenti degli sposi.
I
diritti e i doveri della Sposa
Secondo
il volere degli antichi Romani (Mos maiorum),
la mater familias ideale doveva essere
fedele e rispettosa del motto: Casta fuit, domum servavit,
lanam fecit (Fu casta, custodì la casa, filò la lana).
Le iustae nuptiae davano
al marito il diritto di protezione e di tutela e di padronanza assoluta (manus) sulla moglie e, per una legge dei
tempi di Romolo, egli poteva anche condannarla a morte in due casi:
-
In caso venisse sorpresa a
bere vino: la donna veniva
condannata a morte, perché i Romani credevano che, bevendo vino, le donne abortissero.
[1]
Il nome deriva dal verbo spondēre. Durante
la cerimonia di fidanzamento, il fidanzato chiedeva al padre della sposa "Spondesne"?
"Prometti?" E questi rispondeva "Spondeo” "Lo
prometto".
[2]
sacerdote etrusco e romano
dedito alla divinazione, che anticipava il futuro con l'analisi delle viscere
degli animali
[3]
detto appunto anularius, perché si credeva partisse una vena o un
nervo che giungeva dritto al cuore.
[4]
Dopo la fondazione di Roma, Romolo si
pose il problema di come popolarla. Egli infatti aveva portato con sé i pastori
ma nessuna donna. Egli organizzò una grande festa alla quale invitò i Sabini con
le rispettive mogli e figlie. Durante la festa, i Romani rapirono le donne
sabine e con le armi scacciarono gli uomini.
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