Platone e l'amicizia
Platone, Liside (o dell’amicizia)
τί οὖν ἂν ἔτι χρησαίμεθα τῷ λόγῳ; ἢ δῆλον ὅτι οὐδέν; δέομαι οὖν, ὥσπερ οἱ σοφοὶ ἐν τοῖς δικαστηρίοις, τὰ εἰρημένα ἅπαντα ἀναπεμπάσασθαι. εἰ γὰρ μήτε οἱ φιλούμενοι μήτε οἱ φιλοῦντες μήτε οἱ ὅμοιοι μήτε οἱ ἀνόμοιοι μήτε οἱ ἀγαθοὶ μήτε οἱ οἰκεῖοι μήτε τὰ ἄλλα ὅσα διεληλύθαμεν—οὐ γὰρ ἔγωγε ἔτι μέμνημαι ὑπὸ τοῦ πλήθους—ἀλλ᾽ εἰ μηδὲν τούτων φίλον ἐστίν, ἐγὼ μὲν οὐκέτι ἔχω τί λέγω.
ταῦτα δ᾽ εἰπὼν ἐν νῷ εἶχον ἄλλον ἤδη τινὰ τῶν πρεσβυτέρων κινεῖν: κᾆτα, ὥσπερ δαίμονές τινες, προσελθόντες οἱ παιδαγωγοί, ὅ τε τοῦ Μενεξένου καὶ ὁ τοῦ Λύσιδος, ἔχοντες αὐτῶν τοὺς ἀδελφούς, παρεκάλουν καὶ ἐκέλευον αὐτοὺς οἴκαδ᾽ ἀπιέναι: ἤδη γὰρ ἦν ὀψέ. τὸ μὲν οὖν πρῶτον καὶ ἡμεῖς καὶ οἱ περιεστῶτες αὐτοὺς ἀπηλαύνομεν: ἐπειδὴ δὲ οὐδὲν ἐφρόντιζον ἡμῶν, ἀλλ᾽ ὑποβαρβαρίζοντες ἠγανάκτουν τε καὶ οὐδὲν ἧττον ἐκάλουν, ἀλλ᾽ ἐδόκουν ἡμῖν ὑποπεπωκότες ἐν τοῖς Ἑρμαίοις ἄποροι εἶναι προσφέρεσθαι, ἡττηθέντες οὖν αὐτῶν διελύσαμεν τὴν συνουσίαν. ὅμως δ᾽ ἔγωγε ἤδη ἀπιόντων αὐτῶν, νῦν μέν, ἦν δ᾽ ἐγώ, ὦ Λύσι τε καὶ Μενέξενε, καταγέλαστοι γεγόναμεν ἐγώ τε, γέρων ἀνήρ, καὶ ὑμεῖς. ἐροῦσι γὰρ οἵδε ἀπιόντες ὡς οἰόμεθα ἡμεῖς ἀλλήλων φίλοι εἶναι— καὶ ἐμὲ γὰρ ἐν ὑμῖν τίθημι—οὔπω δὲ ὅτι ἔστιν ὁ φίλος οἷοί τε ἐγενόμεθα ἐξευρεῖν.
In verde i participi, in giallo gli altri tempi verbali, sottolineati i genitivi assoluti
Platone Liside, 222ea-223b
«Dunque cosa ricaveremo ancora dalla discussione? O è evidente che non ricaveremo nulla? Dunque vi prego, come fanno gli esperti nei tribunali, di riflettere su tutto ciò che si è detto. Se infatti né gli amati né gli amanti, né i simili né i dissimili, né i buoni, né gli affini, né tutte le altre condizioni che abbiamo enumerato - io infatti non me le ricordo, dato il loro gran numero - se nulla di ciò è amico, non so più cosa dire».
Dopo aver detto queste parole, avevo in mente di coinvolgere nella discussione qualcun altro dei più anziani, ma allora, come demoni, si avvicinarono i pedagoghi di Menesseno e di Liside con i loro fratelli, li chiamarono e ordinarono loro di tornare a casa, poiché era già tardi.
Dapprima noi e i presenti cercammo di allontanarli, ma poiché non si curavano affatto di noi, anzi si irritavano nel loro parlare barbaro e nondimeno li chiamavano e ci pareva che avessero bevuto alla festa di Ermes e quindi fossero difficili da avvicinare, vinti da essi sciogliemmo la riunione. Tuttavia, mentre essi si allontanavano, io dissi: «Ora, Liside e Menesseno, siamo diventati ridicoli io, un vecchio, e voi. Infatti costoro andandosene diranno che noi crediamo di essere amici uno dell'altro - mi pongo anch'io tra voi - e non siamo stati ancora capaci di trovare cos'è l'amico».
τί οὖν ἂν ἔτι χρησαίμεθα τῷ λόγῳ; ἢ δῆλον ὅτι οὐδέν; δέομαι οὖν, ὥσπερ οἱ σοφοὶ ἐν τοῖς δικαστηρίοις, τὰ εἰρημένα ἅπαντα ἀναπεμπάσασθαι. εἰ γὰρ μήτε οἱ φιλούμενοι μήτε οἱ φιλοῦντες μήτε οἱ ὅμοιοι μήτε οἱ ἀνόμοιοι μήτε οἱ ἀγαθοὶ μήτε οἱ οἰκεῖοι μήτε τὰ ἄλλα ὅσα διεληλύθαμεν—οὐ γὰρ ἔγωγε ἔτι μέμνημαι ὑπὸ τοῦ πλήθους—ἀλλ᾽ εἰ μηδὲν τούτων φίλον ἐστίν, ἐγὼ μὲν οὐκέτι ἔχω τί λέγω.
ταῦτα δ᾽ εἰπὼν ἐν νῷ εἶχον ἄλλον ἤδη τινὰ τῶν πρεσβυτέρων κινεῖν: κᾆτα, ὥσπερ δαίμονές τινες, προσελθόντες οἱ παιδαγωγοί, ὅ τε τοῦ Μενεξένου καὶ ὁ τοῦ Λύσιδος, ἔχοντες αὐτῶν τοὺς ἀδελφούς, παρεκάλουν καὶ ἐκέλευον αὐτοὺς οἴκαδ᾽ ἀπιέναι: ἤδη γὰρ ἦν ὀψέ. τὸ μὲν οὖν πρῶτον καὶ ἡμεῖς καὶ οἱ περιεστῶτες αὐτοὺς ἀπηλαύνομεν: ἐπειδὴ δὲ οὐδὲν ἐφρόντιζον ἡμῶν, ἀλλ᾽ ὑποβαρβαρίζοντες ἠγανάκτουν τε καὶ οὐδὲν ἧττον ἐκάλουν, ἀλλ᾽ ἐδόκουν ἡμῖν ὑποπεπωκότες ἐν τοῖς Ἑρμαίοις ἄποροι εἶναι προσφέρεσθαι, ἡττηθέντες οὖν αὐτῶν διελύσαμεν τὴν συνουσίαν. ὅμως δ᾽ ἔγωγε ἤδη ἀπιόντων αὐτῶν, νῦν μέν, ἦν δ᾽ ἐγώ, ὦ Λύσι τε καὶ Μενέξενε, καταγέλαστοι γεγόναμεν ἐγώ τε, γέρων ἀνήρ, καὶ ὑμεῖς. ἐροῦσι γὰρ οἵδε ἀπιόντες ὡς οἰόμεθα ἡμεῖς ἀλλήλων φίλοι εἶναι— καὶ ἐμὲ γὰρ ἐν ὑμῖν τίθημι—οὔπω δὲ ὅτι ἔστιν ὁ φίλος οἷοί τε ἐγενόμεθα ἐξευρεῖν.
In verde i participi, in giallo gli altri tempi verbali, sottolineati i genitivi assoluti
Platone Liside, 222ea-223b
«Dunque cosa ricaveremo ancora dalla discussione? O è evidente che non ricaveremo nulla? Dunque vi prego, come fanno gli esperti nei tribunali, di riflettere su tutto ciò che si è detto. Se infatti né gli amati né gli amanti, né i simili né i dissimili, né i buoni, né gli affini, né tutte le altre condizioni che abbiamo enumerato - io infatti non me le ricordo, dato il loro gran numero - se nulla di ciò è amico, non so più cosa dire».
Dopo aver detto queste parole, avevo in mente di coinvolgere nella discussione qualcun altro dei più anziani, ma allora, come demoni, si avvicinarono i pedagoghi di Menesseno e di Liside con i loro fratelli, li chiamarono e ordinarono loro di tornare a casa, poiché era già tardi.
Dapprima noi e i presenti cercammo di allontanarli, ma poiché non si curavano affatto di noi, anzi si irritavano nel loro parlare barbaro e nondimeno li chiamavano e ci pareva che avessero bevuto alla festa di Ermes e quindi fossero difficili da avvicinare, vinti da essi sciogliemmo la riunione. Tuttavia, mentre essi si allontanavano, io dissi: «Ora, Liside e Menesseno, siamo diventati ridicoli io, un vecchio, e voi. Infatti costoro andandosene diranno che noi crediamo di essere amici uno dell'altro - mi pongo anch'io tra voi - e non siamo stati ancora capaci di trovare cos'è l'amico».
Commenti
Posta un commento